
Oggi, a Carte Scoperte, si rivela una Carta Regia di grande valore: Melina Pellicano, mente e visione dietro Pinocchio il Musical, la nuova produzione firmata Compagnia BIT.
Con lei abbiamo attraversato il confine tra realtà e immaginazione, tra palcoscenico e coscienza.

Melina, qual è stato il musical che ti ha fatto innamorare del genere?
Cats, Mary Poppins, entrambi visti nelle loro produzioni originali inglesi. Ero molto giovane,
avevo vent’anni.
Come è nata l'idea di portare in scena Pinocchio in una nuova veste musicale? Cosa ti ha ispirato in questo progetto?
L’idea di portare in scena Pinocchio in una nuova veste musicale nasce dal desiderio di dare
vita, sul palcoscenico, alla favola italiana per eccellenza. Come sempre, il mio punto di
partenza è stato lo studio approfondito dell’autore e degli ambienti descritti nel romanzo. Mi
affascina cercare di entrare nella mente di chi ha scritto l’opera, immaginare ciò che vedeva,
respirava e provava mentre la creava. Per questo motivo, amo esplorare fisicamente i luoghi
dove si svolgono le vicende, lasciandomi ispirare da atmosfere, dettagli e suggestioni che
possano arricchire la mia visione scenica. Con Pinocchio, tutto questo ha significato
confrontarsi con le radici stesse della nostra cultura narrativa, visitare paesaggi e luoghi che
hanno ispirato Collodi, per poi trasferire queste immagini in un’esperienza teatrale che
potesse essere più viva ed emozionante possibile.
Nelle note di regia descrivi Pinocchio come "la rappresentazione della vita, pura e senza filtri". Come hai tradotto questa visione nella messa in scena e nella direzione degli attori?
Nelle mie note di regia, ho voluto che fosse costante e presente nella mente dello spettatore
l’idea che esista un mondo immaginifico e surreale che cammina in parallelo con la
rappresentazione della vita reale. Pinocchio è, per me, la rappresentazione pura e senza filtri
della vita: la nascita come atto quasi magico, specialmente quando avviene da una materia
grezza, come un pezzo di legno. In quella materia c’è già, latente, la possibilità della
trasformazione.
Sul palco, mi sono impegnata a rendere visibile e percepibile questa trasformazione: il legno
che prende vita, che si anima, che evolve. Con i miei coautori Stefano Lori e Marco Caselle e
con tutto lo staff creativo, scenografo, costumista, light designer, abbiamo lavorato per far
emergere costantemente questo binomio: il reale e il surreale. La componente onirica,
primordiale, caotica, quella parte istintiva ed energetica che abita dentro ognuno di noi, è
diventata la guida visiva e drammaturgica della messa in scena.
Anche nella direzione degli attori ho cercato di rendere vivo questo doppio livello. Ho chiesto
loro di muoversi costantemente tra aderenza alla verità del mondo creato da Collodi e
un’astrazione necessaria, una qualità surreale nella recitazione che permettesse allo spettatore
di sentire quel senso di meraviglia e possibilità. È in questo equilibrio che, credo, si sprigiona
la forza di Pinocchio: un racconto che ci parla dell’energia grezza della vita, della curiosità e
della libertà che ci muove, e del nostro bisogno di restare sempre un po’ bambini.

Hai scelto di affidare il ruolo di Pinocchio a un bambino. Quali sfide e opportunità ha comportato questa scelta nella costruzione dello spettacolo?
Ho scelto di affidare il ruolo di Pinocchio a un bambino perché Pinocchio è un bambino.
L’infanzia rappresenta lo stato puro dell’essere: è istinto, è caos, è curiosità, è energia. Un
bambino in scena riesce a restituire quella forza primordiale, quel bisogno viscerale di libertà
e scoperta che appartiene alla prima fase della vita — proprio ciò che Collodi racconta con
tanta autenticità nel suo romanzo.
Per me, Pinocchio libero e senza filtri non poteva che essere interpretato da un interprete che
incarnasse davvero quella verità. Ho visto in questa scelta una grande opportunità: quella di
restituire al pubblico un Pinocchio reale, vero, vicino al personaggio originale e capace di
evocare tutta la sua fragilità, il suo entusiasmo, la sua fame di mondo.
Naturalmente, dirigere un bambino comporta delle sfide, soprattutto in termini di tenuta
scenica e di ritmo, ma ho trovato che la spontaneità e la vitalità che porta con sé arricchiscono
lo spettacolo di un’autenticità che sarebbe difficile ottenere diversamente. È stata una scelta
coraggiosa, ma anche profondamente coerente con la mia visione del personaggio e dell’intero
lavoro.
Il musical promette scenografie, costumi e musiche spettacolari. Come avete lavorato per creare un'esperienza immersiva che sia fedele al romanzo di Collodi?
Per creare un’esperienza immersiva che fosse davvero fedele al romanzo di Collodi, il primo
passo è stato la scrittura del musical, come sempre a stretto contatto con i miei coautori,
Stefano Lori e Marco Caselle. La complicità che si crea tra gli autori, nel processo di scrittura,
contribuisce a dare forza a tutto ciò che si costruirà in scena.
Questa stessa complicità l’ho ritrovata con tutti gli altri creativi coinvolti nel progetto:
scenografo, costumista, light designer, attrezzista… tutti hanno contribuito con grande
passione e attenzione alla costruzione di un universo visivo che fosse allineato alla poetica
della fiaba e al tempo stesso coerente con il linguaggio teatrale. L’obiettivo comune era offrire
al pubblico un’esperienza immersiva e uniforme, dove ogni elemento (musica, parola, luce,
immagine) fosse al servizio della narrazione.
Abbiamo scelto, dove possibile, soluzioni sceniche anche classiche, ispirate al teatro “alla
vecchia maniera”, proprio per restituire quell’atmosfera di racconto senza tempo che
Pinocchio porta con sé. È una fiaba che ci riporta immediatamente a un tempo originale,
arcaico, eppure colmo di temi attuali. Proprio per questo, mi piaceva l’idea di evocare in scena
un mondo che potesse parlare al presente senza tradire la memoria e la radice profonda della
favola italiana per eccellenza.

Il cast include il duo comico “Pino e gli Anticorpi” nei ruoli del Gatto e della Volpe. Come si inserisce la loro comicità nella narrazione dello spettacolo?
Nell’immaginario collettivo, il Gatto e la Volpe sono personaggi fortemente iconici, anche
grazie alle tante rappresentazioni cinematografiche che ci sono state. Spesso chi interpreta
questi ruoli imprime una propria impronta così riconoscibile che finisce per fondersi con il
personaggio stesso. Con Stefano e Michele Manca, ovvero Pino e gli Anticorpi, è successo
qualcosa di simile: sono attori con una comicità personale e molto caratterizzata, unica nel
panorama italiano, e questo li rende perfetti per incarnare due figure così ambigue, ironiche e
fuori dagli schemi.
È stato divertente vedere come la loro comicità, spontanea e surreale, potesse integrarsi nel
racconto di Pinocchio, arricchendolo senza mai stravolgerlo.

Qual è stato il processo creativo nella collaborazione con i compositori Stefano Lori e Marco Caselle per le musiche originali dello spettacolo?
Lavoriamo insieme da anni e il nostro è un team creativo coeso, in cui la scrittura del libretto
e delle musiche avviene in piena sintonia, senza che nessuno di noi si stacchi dal percorso
comune. Le melodie delle canzoni nascono dopo un lavoro approfondito sul carattere dei
personaggi: ci confrontiamo, discutiamo, esploriamo possibilità finché non troviamo la voce
giusta per ognuno di loro. È un processo che ci permette di arrivare a una scrittura coerente,
strutturata ma anche profondamente emozionante.
Pinocchio è una storia ricca di simbolismi e insegnamenti. Quali messaggi speri che il pubblico porti con sé dopo aver assistito al musical?
Per me, uno dei messaggi fondamentali che Pinocchio porta con sé e che spero arrivi al
pubblico dopo aver visto il musical, è la rivalutazione del valore del sapere e della conoscenza.
Troppo spesso questa favola viene interpretata come una semplice lezione sull’obbedienza:
segui le regole, fai il bravo, non fare domande. Ma non è affatto così. Collodi non voleva
trasmettere un messaggio di cieca disciplina; al contrario, la sua opera ci parla della necessità
di capire, di interrogarsi, di crescere attraverso l’esperienza e l’apprendimento.
Ho cercato di rendere chiara questa intenzione, anche nella scrittura dello spettacolo: andare
a scuola, non è un dovere fine a se stesso, ma un mezzo per cominciare a conoscere sé stessi e il
mondo. La cultura non è un bagaglio da accumulare, ma uno strumento di libertà: ci
permette di scegliere, di non essere manipolati, di non seguire passivamente chi urla più forte.
In questo senso, per Pinocchio, imparare diventa un gesto di libertà. E oggi, più che mai,
credo che questo messaggio sia profondamente attuale.
Tengo molto al tema dell’individualità. Pinocchio ci insegna che non bisogna omologarsi:
essere sé stessi, anche quando questo significa andare controcorrente, è fondamentale.
L’omologazione è spesso la strada verso l’oppressione, il bullismo, l’annullamento del pensiero
critico. Ho voluto sottolineare l’importanza del coraggio di ribellarsi, di difendere la propria
unicità e di costruire il proprio percorso.
Infine, c’è un messaggio che considero tra i più potenti del racconto: Pinocchio non diventa un
bambino vero per magia, ma perché il suo modo di agire cambia profondamente. È il suo
prendersi cura degli altri, il suo guardare oltre sé stesso e comprendere il valore delle relazioni
e della responsabilità che lo trasforma. È un processo umano, lento e profondo. Questo senso
di cura, di attenzione, di cambiamento che parte dall’interno, è un altro dei pilastri che ho
voluto portare in scena.
Il tour debutterà a maggio 2025 in teatri prestigiosi come il Teatro Repower di Milano, l'Auditorium della Conciliazione di Roma e il Teatro Politeama di Genova. Come vi state preparando per queste importanti anteprime?
Ci stiamo preparando per queste importanti anteprime con la giusta attenzione e cura,
lavorando costantemente alla ricerca del perfezionismo e di tutte quelle migliorie che possano
contribuire a offrire al pubblico un’esperienza davvero unica.
C’è impegno, dedizione e, naturalmente, tanta fatica: le prove sono intense, il lavoro dietro le
quinte è continuo, ogni reparto è coinvolto al massimo per far sì che ogni dettaglio funzioni
alla perfezione. Ma è giusto che sia così. Portare in scena Pinocchio con l’ambizione e la
qualità che merita richiede un’enorme energia collettiva, e tutto il team è concentrato per
arrivare al debutto nel modo migliore possibile. Sappiamo che il pubblico si aspetta qualcosa
di speciale, e vogliamo essere all’altezza di quella aspettativa.

Infine, cosa c'è di Pinocchio in te? In quale passaggio del suo viaggio ti rivedi di più, oggi, come donna e come artista?
Di Pinocchio in me c’è sicuramente tutta la parte legata all’infanzia, alla fanciullezza: quella
dimensione pura e immaginifica dove nasce la creatività. È lì che conserviamo la nostra
capacità di sognare liberamente, qualcosa che i bambini hanno naturalmente e che da adulti
spesso perdiamo.
Mi rivedo molto in quel suo continuo oscillare tra realtà e fantasia, tra il bisogno di aderire al
mondo concreto e quello di restare in contatto con un universo interiore ricco, vivo, pieno di
immaginazione. Questo equilibrio è qualcosa che porto con me ogni giorno, sia come donna
sia come artista.
Credo profondamente nell’importanza di proteggere l’infanzia, di difendere il diritto dei
bambini a restare tali, a esplorare il mondo con la loro curiosità e la loro energia. Dovremmo
fare molto di più per dare valore a questa fase della vita, perché i bambini sono il nostro
futuro e meritano attenzione, ascolto e stimoli. Purtroppo spesso chi potrebbe davvero
occuparsene non lo fa abbastanza, ed è un’occasione mancata per tutti.
DOMANDA DI RITO: Quando cala il sipario e si spengono, i riflettori… chi rimane?
Quando cala il sipario e si spengono i riflettori, rimango io. Me stessa, con tutto quello che ho
dentro. Rimane il racconto, rimane la sua forza, il senso profondo di tutto il mio lavoro. In
quel momento sparisce tutto il resto, e tutto acquista significato: il perché faccio questo
mestiere, il valore del teatro, il potere delle storie. È lì che comincia la vera magia, il dialogo
silenzioso ma potentissimo con il pubblico, la restituzione di quelle emozioni che ho vissuto
nella scrittura e che desidero arrivino dritte al cuore di chi guarda.